Memoria della CONFIAL sull’istituzione del salario minimo legale inviata al Presidente e ai componenti delle commissioni lavoro di Senato e Camera dei Deputati.
Lo scopo del salario minimo legale nell’ambito dell’Unione europea è il contrasto alla competitività dei singoli paesi perseguita attraverso il dumping sociale, che favorisce anche le delocalizzazioni. Una prospettiva di “federalizzazione dei fondamenti della cittadinanza sociale”, da costruire anche attraverso la realizzazione di strutture sovranazionali di Welfare per aumentare i livelli di protezione sociale, invero sottoposti a continue compressioni e riduzioni dalle politiche di contenimento della spesa pubblica legate all’austerity europea.
Nel parlamento di Bruxelles giace da tempo la proposta che prevede l’introduzione di un salario minimo per tutti i cittadini del vecchio Continente, ad azzeramento delle evidenti disparità che sussistono tra i territori dove non è presente alcuna retribuzione minima mensile stabilita per legge, mentre non si può non ricordare l’ampia produzione di convenzioni dell’Organizzazione Internazionale del Lavoro su tale materia, in parte recepita nel nostro ordinamento del lavoro con la “legislazione di adeguamento”.
Ecco quindi, che l’introduzione del salario minimo legale potrebbe essere uno strumento di garanzia contro le condizioni strutturali di sottosalario, che, come ha sollecitato l’ILO, abbia adeguati strumenti sanzionatori, che sottraggono molti lavoratori alla copertura della contrattazione collettiva, con i fenomeni di destrutturazione del sistema dei diritti e delle tutele sociali e di svalorizzazione del lavoro, anche in Italia.
Da questo angolo visuale è possibile osservare che salario minimo legale e contrattazione collettiva, nei paesi ove esiste questo istituto, sia con contrattazione collettiva a bassa copertura che, invece, con alti livelli retributivi, sono interattivi e complementari e non oppositivi, riaffermando una ormai tradizionale configurazione definita dalla dottrina di “salario sociale”. Il livello di copertura della contrattazione collettiva modifica sostanzialmente la funzione del salario minimo legale e solo nei paesi con bassa copertura l’istituto funge da “rete di protezione” per quanti non protetti adeguatamente dal salario contrattuale.
Il dibattito dottrinale sul tema è molto ricco e articolato, con una dialettica di posizioni tra chi ritiene che il salario minimo legale metterebbe in questione il ruolo di “autorità salariale” delle parti sociali svolto attraverso la contrattazione collettiva e posizioni, invece, favorevoli, che assumono il principio secondo cui le dinamiche salariali abbiano rilevanza a carattere generale anche di tipo pubblico, che giustifica un intervento legislativo sulla fattispecie; posizione quest’ultima condivisa dalla Confial.
In questa logica si è per l’appunto soliti dire che la giurisprudenza, attraverso l’art. 36 Cost., attribuisce soltanto un’efficacia generale indiretta alle clausole contrattuali sui minimi retributivi, assunte alla stregua di parametri. Dunque, l’introduzione del salario minimo legale potrebbe essere uno strumento di garanzia contro la compressione salariale, che sottrae molti lavoratori alla copertura della contrattazione collettiva.
Nel nostro Paese si discute di salario minimo legale in una prospettiva più ampia, in relazione anche alla tutela di forme ibride di lavoro autonomo con la previsione di soglie minime di intervento previdenziale e di welfare, da estendersi a quelle figure di lavoratori che non rientrano strictu sensu ex 2094 c.c., nella nozione di subordinazione ma che subiscono gravi fenomeni di sfruttamento come i cosiddetti riders.
Esiste, infatti, il problema delle garanzie per tutti i lavoratori dipendenti, stabilendo pari condizioni normative e retributive ed il fenomeno del dumping sociale generato dai contratti “pirata”, con il 12% dei lavoratori dipendenti che riceve un salario inferiore ai minimi contrattuali, ingrossando le fila dei working poors, i poveri malgrado il lavoro. Si tratta di un fenomeno che riguarda l’intera Unione europea, con il formarsi di una “nuova classe di lavoratori” che hanno un’occupazione, anche formalmente legale, ma che non riesce a raggiungere il minimo economico per vivere decorosamente, a causa dei bassi salari in alcuni settori, specie del terziario, ovvero perché impiegata in lavori precari o discontinui.
L’ordinamento del lavoro deve evolversi verso un sistema di protezione più leggero ma universale, tale da ricomprendere la subordinazione quanto il nuovo lavoro autonomo economicamente dipendente, come quello dei rider.
Del tutto in controtendenza, in contrasto con lo stesso quadro comparato europeo, è, però, il tentativo surrettizio di circoscrivere agli attori “storici” delle relazioni industriali in Italia, l’ambito della contrattazione collettiva.
Infatti, l’individuazione dei contratti collettivi da applicare attraverso il ricorso al criterio selettivo della comparazione tra i sindacati più rappresentativi pone evidenti questioni di costituzionalità in ordine al principio di libertà sindacale di cui al comma 1° dell’art. 39 della Costituzione, rilevati storicamente dalla dottrina. Infatti, posta l’esistenza di una pluralità di regolamenti contrattuali collettivi, disciplinanti le stesse categorie, e quindi fungibili sotto il profilo dell’efficacia soggettiva, appare fondata l’obiezione secondo cui in un regime concorrenziale nel quale tutte, o quasi, le organizzazioni sindacali si proclamano portatrici e titolari dell’interesse di classe o di categoria, lo Stato non può arrogarsi il potere di attribuire, a priori, patenti di ‘autenticità o di ‘genuinità’ al di fuori dell’eccezionale fattispecie alla quale si riferisce l’art. 17 della l. n. 300/1970 (“sindacati di comodo”) e, d’altra parte, i trattamenti retributivi definiti dall’autonomia collettiva sono sottratti al controllo giudiziale e possono subire modifiche sono nell’ipotesi legale in cui giudizialmente venga statuita la natura di sindacato di comodo del soggetto stipulante.
Sul “sindacato comparativamente più rappresentativo” si deve ricordare il giudizio di uno dei Maestri del diritto del lavoro non solo italiano, Gino Giugni, che ebbe ad affermare come tale nozione sia: “escogitazione linguista intelligente e feconda” in luogo di strumento del diritto sindacale.
OSSERVAZIONI AL DISEGNO DI LEGGE N. 658 IN MATERIA DI SALARIO MINIMO ORARIO
– art. 1. Si suggerisce di prevedere esplicitamente che il salario minimo orario riguardi anche quelle figure, ad esempio i “rider”, che non rientrano nello schema classico della subordinazione. Pertanto, si deve eliminare il riferimento esclusivo all’art. 2094 c.c., prevedendo “i lavoratori subordinati di cui all’art. 2094 c.c. e quelle figure lavorative assimilabili, individuate con successivi decreti dal Ministero del Lavoro, previa consultazione con i sindacati dei lavoratori maggiormente rappresentativi (e non comparativamente più rappresentativi)”.
– art. 2 e art. 3. Entrambi non risolvono la vexata-quaestio dell’equilibrio tra contrasto al dumping sociale e garanzia del pluralismo sindacale, entrambi di natura costituzionale. La formulazione, invero macchinosa e di complessa attuazione, è più arretrata del dibattito dottrinale in materia e, soprattutto, del “diritto vivente”: la giurisprudenza della Corte costituzionale e della Cassazione. Il riferimento ultimo è alla n. 51/2015 della Consulta e alla 4951/2019 della Suprema Corte, che ritengono applicabili tutti i CCNL che non siano al di sotto, ovvero che superino, i minimi salariali di quelli dei sindacati cosiddetti “comparativamente più rappresentativi”.
Gli articoli vanno riscritti eliminando, quindi, il riferimento al CNEL, considerata anche l’iniziativa di abrogazione dell’art. 99 Cost. e, comunque, funzioni relative al dialogo sociale non certo alla certificazione dei CCNL; prevedendo che siano applicabili, attraverso una procedura di certificazione del Ministero del Lavoro, i CCNL che superino la soglia retributiva del “salario minimo legale”, prevedano la bilateralità e la clausola di rinvio alla contrattazione collettiva di II livello e siano stipulati dalle organizzazioni sindacali e dalle associazioni datoriali a cui lo stesso ministero abbia già conferito alla data di entrata in vigore della legge (o che potrà conferire in presenza di specifici requisiti, tali da evidenziare la natura di Organizzazione di livello Nazionale), la “maggiore rappresentatività” (e non quella comparata).
Da espungere inoltre, il riferimento al T.U. 10 gennaio 2014 tra Confindustria e Cgil, Cisl, Uil, che appare in violazione del principio-precetto della libertà e del pluralismo sindacali di cui all’art. 39, comma 1, della Costituzione.
– Opportuna è la previsione dell’obbligo di trattenuta sindacale in favore anche di quelle OO.SS che non siano firmatarie del CCNL applicato in un’azienda nella quale abbiano aderenti, anche se il problema è stato ormai risolto, come da pacifica giurisprudenza, con il meccanismo della cessione di credito.
F.to
Il Segretario Nazionale
(Cav. Dott. Benedetto DI Iacovo)
Il Responsabile Istituto Studi sul Lavoro
(Cav. Prof. Avv. Maurizio Gandolfo Ballistreri)