Liliana Segre, nel giorno della memoria ha detto, parlando della Shoah, che il ricordo di questa tragedia dovrebbe essere 364 giorni l’anno, lo stesso dovrebbe avvenire per sostenere i diritti delle donne e la parità di genere: ecco perché ho scelto di parlare dell’8 marzo il giorno dopo, oltre le 24 ore di riflessione e di dibattito, nelle quali solitamente – e sovente retoricamente – ci si sofferma sulla piaga della violenza sulle donne, sul gender gap salariale, fino al bilanciamento tra la vita professionale e quella privata.
Una festa, sì, ma legata a un fatto tragico avvenuto sul lavoro nel 1908 a New York, quando decine di operaie morirono in una fabbrica. Un binomio, quindi, donna-lavoro già all’origine del significato della giornata.
È sufficiente una giornata e qualche bella mimosa? In particolare quest’anno, l’8 marzo doveva essere una giornata simbolo di cambiamento, più che una ricorrenza, mentre si consuma il dramma dell’invasione russa in Ucraina, con morti, distruzioni e lo spettro di un conflitto su scala planetaria.
Sono decenni che si discute di emancipazione, eppure non è affatto scontato che la donna possa e riesca a lavorare, oltre a essere madre e moglie. Non è nemmeno scontato guardare la genitorialità come un valore; eppure il contributo che la maternità porta è una ricchezza, che può contaminare e arricchire anche l’ambito lavorativo con un nuovo spirito nell’approcciare i problemi, maggior versatilità, flessibilità.
Eppure l’ultima analisi di Ipsos – uno dei maggiori istituti specializzati in rilevazioni statistiche – ci racconta che le donne sono di fatto le principali vittime economiche e sociali della pandemia: una su due dichiara come peggiorata la propria situazione economica nell’ultimo anno, in modo significativo le madri disoccupate. Il dato sul regresso della condizione economica, inoltre, supera il 60% se si prende in considerazione la fascia di età 25-34 anni (6 donne su 10).
È la cosiddetta ShePoverty, la povertà tutta al femminile, che indubbiamente, nel nostro Mezzogiorno aumenterà per effetto dell’autonomia differenziata, che assegnerà ancora più risorse al Nord, diminuendo l’intervento sociale al Sud, a partire dai livelli di prestazione sanitaria, e gli investimenti, con pesanti conseguenze sull’occupazione e sulle retribuzioni.
Secondo il “Global Gender Gap Report 2022”, che misura il divario di genere nella partecipazione economica e politica e nel livello di istruzione e di salute, l’Italia si posiziona al 63esimo posto su 146 paesi. A livello mondiale il rapporto stima che la parità di genere sarà raggiunta tra 132 anni, un dato veramente avvilente.
Allorquando si considera il binomio “donne-lavoro”, immediatamente si fa riferimento alle discriminazioni che ancora subiscono e alle esistenti difficoltà riscontrate, sia sul piano socioeconomico che su quello lavorativo.
Lavori non retribuiti, lavori sottopagati, lavori part-time, contratti a tempo determinato e disoccupazione, con pesanti conseguenti sul gender pay gap.
Ma quando le donne si affermano nel mondo del lavoro, sorgono altri problemi. A cosa serve “sfondare il soffitto di cristallo”, vincere premi, scalare classifiche, diventare geni della robotica e inanellare primati, se poi mancano le politiche di conciliazione con i tempi di vita, se tutti i risultati ottenuti hanno un prezzo altissimo da pagare: la rinuncia alla vita privata, all’amore, alla maternità, al tempo per sé.
Ecco, quindi, il problema della conciliazione tra vita e lavoro, a cui un contributo fondamentale può derivare sia da uno Stato sociale più attento alle politiche di genere, sia dallo sviluppo, in sede di contrattazione collettiva, del Welfare aziendale – tema quest’ultimo assunto come strategico dalla Confial – senza dimenticare i lavori che non rientrano nell’area delle tutele accordate alla subordinazione, ma che sono sfruttati, si pensi alle false partite Ive o ai rider, per i quali è necessario, attraverso un provvedimento legislativo, approvare uno Statuto del lavoro, inteso nella sua integralità.
L’augurio è poter vedere un Paese che riflette sulle sue persone e offre loro una reale occasione di crescita e soddisfazione generale, professionale e umana, partendo dalla condizione economica delle donne, memori del monito di Anna Kuliscioff, antesignana di un riformismo che assume la parità tra i sessi come strategica nel proprio orizzonte valoriale e di azione politica e sociale: “Solo col lavoro equamente retribuito, o retribuito almeno al pari dell’uomo, la donna farà il primo passo avanti ed il più, importante, perché soltanto col diventare economicamente indipendente, essa si sottrarrà al parassitismo morale, e potrà conquistare la sua libertà, la sua dignità ed il vero rispetto dell’altro sesso”.
Benedetto Di Iacovo
Segretario Generale Confial