Intervista al segretario generale Confial Benedetto Di Iacovo su salario minimo, contrasto al lavoro irregolare, lavoro povero e contrattazione collettiva.

Segretario lei è intervenuto più volte su salario minimo, lavoro povero e contrasto al lavoro irregolare. Ci esprime il suo pensiero sulla contrattazione collettiva che ne sta alla base?

“Negli ultimi 30 anni la contrattazione collettiva nazionale non è stata in grado di contrattare livelli salariali adeguati, basti pensare al CCNL della vigilanza, al di sotto di sei euro all’ora. In Italia, nel rapporto tra le tre confederazioni e Confindustria la contrattazione collettiva è stata sempre rivolta alle grandi imprese (quando esistevano). Oggi, va ricordato, le grandi imprese rappresentano appena il 4/5% delle aziende italiane, mentre il 95% sono piccole e medie aziende, dove, ad esempio,  non si fa contrattazione di secondo livello e dove le aziende hanno una media di 3 dipendenti. Se togliamo gli oltre 5 milioni di lavoratori autonomi senza dipendenti la media si alza a 10. E sempre a proposito della contrattazione nazionale mi permetto di osservare che sono solo 250 i contratti collettivi nazionali firmati dalle tre confederazioni e dalle organizzazioni datoriali depositati al CNEL contro gli oltre 700 sottoscritti e regolarmente depositati presso il CNEL e il Ministero del lavoro dalle altre Organizzazioni autonome.

Il salario minimo legale risolverà il problema del lavoro povero?

Sul salario minimo legale si devono guardare le cifre in concreto, con una domanda: cosa devono rappresentare gli eventuali 9 euro/ora? il salario lordo che al netto diventerebbe € 7,50/ora, i 9,00 lordi sono comprensive del salario differito che rappresenta + 8% per la 13ma mensilità, + 8% per la 14ma, + 6,66% per il TFR?  Perché chi non sa leggere la busta paga guarda solo la retribuzione netta mensile e non il reddito annuale del lavoro (RAL), che comprende anche il salario differito. E qui si dovrebbe affrontare il problema del cuneo fiscale che con una eccessiva tassazione falcidia le buste paga.

Quindi ha cosa è legato il lavoro povero e i bassi salari?

Il lavoro povero non è legato solo ai bassi livelli di retribuzione, ma anche da lavoro irregolare diffuso, soprattutto al Sud, che proviene dall’economia sommersa con lavoratori sfruttati privi di tutele; dalla promiscuità e frammentarizzazione delle diverse tipologie contrattuali, da forme contrattuali non subordinate e non regolamentate dai CCNL (lavoro occasionale, tirocini extracurruculari), quindi categorie escluse dalla contrattazione;  da una ridotta intensità di ore lavorate, infine dalla mancanza contrattazione di secondo livello nelle aziende e altro. Il lavoro sommerso poi, non sufficientemente attenzionato dai governi degli ultimi trent’anni, rappresenta un fenomeno complesso con fattori molteplici che richiede un approccio equilibrato di prevenzione, di applicazione della legge e di comminazione di sanzioni. Alti livelli di imposizione fiscale e di contributi di previdenza sociale, nonché oneri amministrativi non indifferenti sono in genere considerati da imprenditori improvvisati come i fattori di spinta verso il lavoro non dichiarato, ma esistono anche tendenze crescenti verso il subappalto e il falso lavoro autonomo.

Lei, in sostanza, denuncia una scarsa attenzione all’economia sommersa ed al lavoro irregolare?

Contrastare l’economia sommersa ed il lavoro irregolare o “nero” è un dovere civico di ogni democrazia. Non dimentichiamo che il tributo di morti sul lavoro che paghiamo spesso è dovuto a scarsi investimenti in sicurezza. E vuole che chi fa lavoro nero pensando di risparmiare possa pensare alla sicurezza sul lavoro?  Quella del lavoro nero e dell’economia sommersa è cosa seria, qui si tratta di una battaglia lunga e diuturna che è difficile immaginarla al pari di una partita di calcio che si vince o si perde al 90° minuto, espressione che fotografa in modo reale la situazione. La natura complessa del problema suggerisce l’attivazione di un mix di politiche e strumenti capaci di incidere profondamente sul fenomeno dell’economia sommersa e del lavoro non regolare. Il lavoro sommerso che viene generato dall’economia non rilevata, non costituisce solamente un problema dal punto di vista economico, ma anche e soprattutto dal punto di vista sociale. La riduzione dell’economia e del lavoro non regolare, di conseguenza, diviene uno dei principali obiettivi di politica economica.

Quindi oltre al lavoro povero il mercato del lavoro registra altre distorsioni?

Assolutamente si! Le distorsioni prodotte nel mercato del lavoro per effetto di irregolarità, lavoro “nero” o “grigio” costituiscono la maggiore mortificazione del valore sociale e della dignità del lavoro e oltre ad essere, per come affermato, la principale causa delle morti e degli incidenti sul lavoro, sono anche una delle cause scatenanti delle nuove marginalità sociali per le categorie svantaggiate nel mercato del lavoro, quali disabili, donne, immigrati, disoccupati con basso livello di skill, quindi di remunerazione salariale, senza dimenticare le distorsioni sul mercato che il dumping sociale produce.

Sta parlando dei contratti pirata?

Assolutamente si! E’ su tale questione che deve essere analizzata la tematica dei c.d. “contratti-pirata”, la cui risoluzione non può trovare soluzione nell’intervento giurisprudenziale, come in atto sta avvenendo.

E quale dovrebbe essere lo sbocco?

Non si sfugge alle due ipotesi delineate dalla recente direttiva euro-unitaria n. 2022/2041, secondo cui la garanzia di retribuzioni eque e dignitose si consegue o con l’introduzione del salario minimo per legge, come previsto in 21 paesi su 27 dell’Unione Europea (ma anche da Stati Uniti e Gran Bretagna, paradigmi del capitalismo anglosassone, altro che “nazionalizzazione del salario” come improvvidamente affermato da qualcuno), ovvero con una legge che attribuisca efficacia generale ai contratti collettivi nazionali di lavoro. Ipotesi, quest’ultima, che non può che essere rispettosa delle previsioni dell’art. 39 Cost., senza, quindi, alcun riferimento ai CCNL dei sindacati c.d. “comparativamente più rappresentativi”.

Quindi i proponenti il salario minimo ne fanno una questione ideologica o di bandierine?

Le considerazioni anzi fatte, credo bastino per evidenziare che affrontare il tema del salario minimo legale solo in termini ideologici non servirà a risolvere completamente il problema del lavoro povero, in quanto ci sono lavori poveri -al di fuori della contrattazione – poiché irregolari che ruotano attorno all’economia sommersa e a quella criminale che, in Italia, vale circa 270 mld di € le quali sfuggono ad ogni forma di imposizione fiscale e previdenziale.

Allora qual’è l’area vera individuabile dei lavoratori sottopagati?

Si tratta di oltre 4 milioni di lavoratori sottopagati esclusi dall’area della contrattazione collettiva moltissimo ancora al di sotto dei 9,00 euro l’ora. Va trovato quindi un punto d’incontro serio e soprattutto applicabile.

Tutta questa complessa situazione è necessario analizzare per parlare di salario fissato per legge senza strumentalità politiche.

Il Governo può aiutare davvero le parti sociali in questa partita?

Certamente, se si mettono da parte le bandierine ideologiche e si discute, seriamente e concretamente a partire dalle coperture finanziarie nella legge di bilancio, della riduzione del cuneo fiscale, che impoverisce salari e pensioni, anche con sovrapposizione di diversificate imposte: IRPEF, addizionali comunali e regionali, tributi comunali e balzelli vari. Per non parlare dei balzelli delle multe da autovelox inflitte tutti i giorni dai Comuni per fare cassa, specialmente al sud a lavoratori e braccianti agricoli che guadagnano non più di trenta euro al giorno e che devono pagare multe salate per autovelox non tarati o posti in zone dove non c’è pericolo alcuno e non si giustifica quel livello bassissimo di velocità.

Un paese con più centrali istituzionali che infliggono balzelli, segretario?

L’Italia è il Paese che tartassa di più ed in particolare il lavoro dipendente e i pensionati, essendo l’unico che impone (scontato i contributi previdenziali e l’Irpef nazionale, ma poi addizionali irpef, regionali, comunali, tasse sulle caldaie, irap. Imu, ecc. . Un solo esempio. In Italia dopo che un lavoratore dipendente ha pagato per oltre 42 anni, oltre agli scontati contributi previdenziali, Irpef fino al 37/42% della propria retribuzione, quando va in pensione, gli si effettua ancora un prelievo del 27%, a fronte del 2% in Germania, 5% in portogallo, 10% in Francia. Io penso che la pensione dovrebbe essere esentata da ogni ulteriore detassazione. Al massimo si dovrebbe richiedere un contributo di solidarietà del 5%. Su questo si rifletta per invertire la rotta”.

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