Deve fare riflettere la divisione nel campo sindacale del nostro Paese.
Nel corso della presentazione di un libro dello storico Federico Romero, dal titolo “Gli Stati Uniti e il sindacalismo europeo 1944-51”, nell’autunno del 1990, Rinaldo Scheda, uno dei dirigenti più autorevoli della Cgil e legato all’ortodossia comunista, sconfessando la storiografia ufficiale del partito e concordando con Bruno Storti e Italo Viglianesi, a lungo leader di Cisl e Uil, affermò che le divisioni sindacali tra il 1948 e il 1950 non furono conseguenza di interferenze internazionali, ma derivarono dalle diverse concezioni del modello sindacale tra le correnti comunista, socialista e cattolica che avevano sottoscritto il Patto di Roma del 1944, fortemente voluto da Bruno Buozzi, già esponente di spicco del socialismo riformista pre-fascista con Turati e Matteotti e segretario generale della Cgdl in esilio, trucidato dai nazifascisti in fuga da Roma, qualche giorno prima della sua firma.
E, in effetti, negli anni ’50 del secolo trascorso si configura uno scacchiere sindacale legato all’esperienza delle culture politiche ciellenistiche, con la Cgil espressione della corrente comunista maggioritaria e di quella socialista, con la nascita, poi, di quella del Psiup, divenuta in seguito della “Nuova sinistra”; la Cisl quale sindacato di ispirazione democristiana, in seguito con presenze autonome di sindacalisti di cultura socialista e della sinistra radicale, sostenitrice del modello della contrattazione decentrata statunitense; la Uil di ispirazione socialista riformista, socialdemocratica e mazziniana.
Un pluralismo sindacale fondato su culture politiche, che al tempo viveva di contrapposizioni e divisioni di tipo ideologico, a causa della guerra fredda e delle diverse strategie delle tre centrali e che, dopo gli anni dell’unità sindacale e le nuove divisioni conseguenti all’Accordo di San Valentino del 1984, resisterà alla fine dei partiti della I Repubblica, praticando negli anni Novanta la “concertazione dell’emergenza”.
Oggi questo schema sindacale tripolare sembra essere in crisi, assieme all’unità d’azione, in relazione alla diversa valutazione delle politiche economiche e sociali del Governo di centro-destra.
La Cisl mantiene un atteggiamento prudente nei confronti dell’Esecutivo, non partecipa ad iniziative conflittuali nei suoi confronti, con la coincidenza sovente di posizioni con l’Ugl e di alcune confederazioni autonome; un’area, quella del sindacalismo autonomo, in forte crescita, tra cui spicca la CONF.I.A.L. per l’espansione organizzativa, l’aumento dei consensi, la vivacità culturale e della proposta sindacale, grazie alla prestigiosa leadership di Benedetto Di Iacovo.
Cgil e Uil hanno realizzato un’alleanza fondata sul conflitto sociale (che il segretario della Cgil Maurizio Landini declina anche come “rivolta sociale”), inedita per quest’ultima, considerata la sua storia segnata dalla cultura del riformismo di matrice socialdemocratica europea, basato sulla partecipazione, dalla quale sembra volersi distaccare, come ha segnalato un acuto osservatore delle relazioni industriali italiane, Massimo Mascini direttore del “Diario del Lavoro”.
Così, il sindacalismo nel nostro Paese rischia di essere stretto tra il conflittualismo della Cgil e la visione collaborativa della Cisl, senza l’equilibrio del riformismo sociale, nel dopoguerra rappresentato dalla Uil e dalla politica sindacale di Giorgio Benvenuto, suo leader storico e del sindacalismo italiano, condensato nello slogan “Dall’antagonismo al protagonismo”, che raccolse, modernizzandola, l’eredità di Bruno Buozzi, con il modello della partecipazione, fondato su concertazione con le istituzioni delle politiche economiche, controllo nelle aziende e sull’innovativa proposta, ispirata dalla cultura laica, del “sindacato dei cittadini”.
Un bipolarismo che contraddice la prospettiva delle relazioni tra i sindacati indicata da un altro leader della Uil Pietro Larizza: “l’unità si fa in tre o in uno”, sottintendendo l’unità d’azione tra le tre confederazioni ovvero un unico sindacato unitario. L’attuale divisione impedisce ai sindacati confederali di avere proposte unitarie e di assumere iniziative adeguate nei confronti di problemi che affliggono in questa fase storica il mondo del lavoro, in primo luogo per l’evidente questione-salariale che il lavoro povero e sottopagato propone.
L’Italia è l‘unico Paese sviluppato dell’area Ocse che, dal 1990 ad oggi, ha visto lo stipendio annuo medio diminuire. E gli effetti economici dell’invasione russa dell’Ucraina, dell’aumento delle bollette energetiche, dalla crescita dell’inflazione, hanno già il segno dell’emergenza sociale.
La divisione contribuisce in modo significativo alla riduzione delle tutele del lavoro e dei diritti sociali e i rischi di porre fine all’universalità della protezione sociale, che i processi di digitalizzazione e, in prospettiva, della diffusione dell’intelligenza artificiale, possono ridurre ulteriormente, anche sul versante dell’occupazione.
Una divisione sindacale negativa pure sul terreno democratico.