Il Mezzogiorno e il piano degli interventi anti-covid. Il pensiero del segretario generale Benedetto Di Iacovo

Si discute del massiccio piano di interventi contro l’emergenza da Covid-19: liquidità dalla BCE per 1.110 miliardi, prestiti da BEI e COSME per quasi 250 miliardi, 100 miliardi contro la disoccupazione grazie al SURE, 240 dal MES senza condizionalità, sospensione del patto di stabilità, flessibilità per gli aiuti di Stato, impiego dei Fondi strutturali non utilizzati, ampliamento del fondo di solidarietà, appalti comuni e aiuti alla ricerca.

E’ stato sottolineato, correttamente, che gli interventi da utilizzare per investimenti non dovranno spezzettarsi in micro-interventi, ma servire a sostenere grandi progetti integrati di sistema, per modernizzare l’economia, green e 4.0, sostenere lo sviluppo non solo in termini di crescita del prodotto interno lordo, ma soprattutto in buona occupazione, socialità, ambiente, beni comuni.

Questo nuovo scenario, che sembra archiviare l’austerity in Europa, costituisce una grande opportunità per il Mezzogiorno d’Italia, che può e deve inserirsi nel massiccio piano europeo di investimenti, per rafforzare l’intelaiatura logistica, realizzare le indispensabili infrastrutture strategiche, Ponte sullo Stretto in primis quale vero e proprio simbolo dell’integrazione europea in quanto segmento strategico del Corridoio 1 Berlino-Palermo, per portare l’alta velocità sino in Sicilia, per cablare l’intero Mezzogiorno con ampie zone di free wi-fi,  per collegare le reti infrastrutturali europee del TEN-T a quelle cinesi del BRI, anche pensando a realizzare una Banca di Investimenti del Mediterraneo.

L’utilizzazione del Recovery Fund e degli altri fondi comunitari, su cui si sta sviluppando il confronto del nostro governo con la Ue, deve vedere le Regioni meridionali presentarsi con obiettivi comuni e strategia condivisa. Serve una visione sistemica, che superi la richiesta di fondi per la realizzazione delle singole opere di uno specifico territorio, per guardare a più ampi sistemi strutturali, infrastrutturali e di servizi nel Mezzogiorno.

L’impreparazione di alcune regioni del sud sul versante sanitario, con evidenza assoluta spicca la Calabria ad onore delle cronache, ci deve fare riflettere e non indugiare. Al Sud c’è un vero e proprio problema di classi dirigenti, che non è più possibile sottovalutare. Serve una brainstorming anche delle coscienze e una vera mobilitazione di tutte l forze sinceramente democratiche.

In questa prospettiva si deve rilanciare la tensione meridionalista, erede delle analisi e delle proposte sulla questione meridionale, oggetto di discussioni sin dalla metà del diciottesimo secolo quando i riformisti dell’illuminismo napoletano sostennero che una nuova società meridionale dovesse sostituirsi al regime feudale che si stava disgregando.

In verità da decenni il meridione è stato oggetto d’interventi dei vari governi. Esiste purtroppo un contrasto tra la massa ingente d’interventi effettuati e gli effetti che essi hanno avuto sull’occupazione complessiva del Meridione. La disoccupazione era alta nel passato e lo è ancora alta oggi. I tanti interventi speciali e straordinari nell’agricoltura e nelle opere pubbliche non sono riusciti a ridurre questo divario. Tanti studi hanno descritto il Meridione come un’area d’industrializzazione senza sviluppo o di sviluppo senza occupazione. E, nonostante i molteplici investimenti pubblici, i vari rapporti del Censis, dell’Istat e dello Svimez documentano, ancora oggi, l’elevata disoccupazione, i redditi bassi e le condizioni di vita precarie del Meridione. Il problema è che i vari programmi governativi si sono concentrati sull’assistenzialismo, per raccogliere voti senza, però, ridurre il divario.

Un solo dato, ai giorni nostri, deve fare riflettere: secondo una recente statistica Eurostat rispetto a una media Ue del 73,1%, nel Sud d’Italia solo meno della metà delle persone tra i 20 e i 64 anni ha un lavoro. Le posizioni di fondo classifica sono tutte occupate da regioni del Sud Italia. Le percentuali riferite al 2019 vedono in questa speciale graduatoria europea penultima la Sicilia con il 44,1% di persone che possiedono un’occupazione, preceduta dalla Campania al 45,3%, la Calabria con il 45,6% e la Puglia con il 49,4%. All’ultimo posto la Mayotte, un arcipelago africano regione d’oltremare francese tra il Madagascar e il Mozambico, con il 40,8% di occupati.

Sui mali del Mezzogiorno, quindi, bisogna evitare ogni ipocrisia, poiché se è vero che dall’Unità d’Italia sino ad oggi esso è stato marginalizzato, ciò è stato possibile anche per la colpevole acquiescenza delle classi dirigenti meridionali, che hanno preferito gestire le risorse disponibili in una logica di scambio politico-clientelare (anche con le organizzazioni criminali) all’insegna del familismo amorale e delle logiche di clan politici e d’affari, anziché promuovere lo sviluppo sociale ed economico collettivo. Senza dimenticare quanto evidenziato in un ormai celebre studio pubblicato nel 1993 da Robert Putnam, dal titolo “la tradizione civica delle regioni italiane”. Secondo il sociologo americano la storia d’Italia, sin dalla fine dell’Impero romano d’Occidente, è stata segnata da una dicotomia, da un lato le regioni ad alto rendimento istituzionale ed economicamente più avanzate (quelle settentrionali), dall’altro quelle a scarso rendimento e basso sviluppo economico (le meridionali), a causa dello scarso senso civico nel Sud.

E questo è uno dei punti nodali per lo sviluppo del Mezzogiorno d’Italia: oltre alla necessaria solidarietà da parte del resto del Paese, serve creare delle comunità civiche basate su rapporti orizzontali di reciprocità e cooperazione, per promuovere la fiducia, l’impegno civile, la tolleranza, lo sviluppo autopropulsivo con la valorizzazione delle risorse locali, l’autodeterminazione  politica.

In una parola serve individuare, quindi creare, nuovi costruttori di futuro per sconfiggere i tanti predatori di presente.

Benedetto Di Iacovo

Segretario Generale Confial nazionale

 

 

 

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