Il nostro è un Paese che sul piano politico, ma non solo, ama le divisioni ideologiche.
Anche il tema dell’autonomia differenziata non sfugge a questa regola di divisione in fazioni, che inibisce, invece, un confronto ragionato su di una grande questione, che abbisogna di confronto e di ragionamenti.
Intanto, un po’ di chiarezza sulla genesi del provvedimento di legge, che discende da una riforma di natura costituzionale.
La possibilità per le regioni di ottenere ulteriori forme di autonomia è prevista, infatti, dalla Costituzione. Il terzo comma dell’articolo 116 della Costituzione, infatti, stabilisce che le regioni possono chiedere di avere «condizioni particolari di autonomia» nella gestione delle 20 “materie concorrenti” su cui possono legiferare insieme allo Stato e nella gestione di altre tre materie tra quelle di competenza esclusiva dello Stato (l’organizzazione della giustizia di pace, le norme generali sull’istruzione e la tutela dell’ambiente, dell’ecosistema e dei beni culturali).
La possibilità per le regioni di ottenere maggiori forme di autonomia è stata inserita dal Parlamento oltre vent’anni fa, con la riforma del Titolo V della Costituzione, conseguente alla Legge costituzionale n.3/2001.
Il Titolo V, come è noto, è la sezione della Costituzione dedicata ai poteri e alle competenze di regioni, province e comuni, e comprende il citato articolo 116.
La riforma del Titolo V è stata approvata a marzo 2001, durante il secondo governo di Giuliano Amato, supportato da una maggioranza di centrosinistra. All’epoca il secondo governo Amato era sostenuto dall’Ulivo, un’alleanza elettorale formata dai Democratici di Sinistra e La Margherita, dal Partito dei Comunisti Italiani e dai centristi dell’UDEUR di Clemente Mastella.
Il governo Amato era nato alla fine di aprile 2000, in seguito alle dimissioni del secondo governo di Massimo D’Alema, leader dei Democratici di Sinistra, dovute alla sconfitta alle elezioni amministrative. A ottobre 2001 la riforma costituzionale del Titolo V è stata poi confermata con un referendum costituzionale, con il 64 per cento di voti favorevoli.
All’epoca del referendum, l’Italia era guidata dal secondo governo Berlusconi, sostenuto da Forza Italia, Alleanza Nazionale e Lega Nord, nato in seguito alla vittoria di Centro-destra alle elezioni politiche del 13 maggio 2001. Prima del referendum di ottobre 2001, Berlusconi, leader di Forza Italia, non prese una posizione ufficiale, dando libertà di scelta ai componenti del suo partito e del governo nel referendum. Il leader della Lega Nord Bossi diede indicazione di non andare a votare, mentre l’allora leader di Alleanza Nazionale Gianfranco Fini annunciò il suo voto contrario.
Questo è il quadro storico-politico sotteso all’autonomia differenziata.
Ma in concreto, quali sono i problemi che deriverebbero dall’attuazione dell’autonomia differenziata e quali i vantaggi?
Il primo ordine di problemi è che la fiscalità diverrebbe, di fatto, a base regionale, sospendendo la redistribuzione delle risorse su base nazionale, in favore delle aree più deboli, secondo il principio di solidarietà e di equità.
In particolare emerge la questione della garanzia dei Livelli essenziali di prestazione (LEP), che vanno garantiti su tutto il territorio nazionale.
E allora, è necessario che prima dell’attuazione dell’autonomia differenziata, si proceda con la definizione e l’attualizzazione dei LEP, così come ad un processo di perequazione della dotazione di infrastrutture materiali e immateriali, in primo luogo i trasporti, la distribuzione dell’energia, la sanità o l’istruzione, che per il loro ruolo nel funzionamento del sistema paese dovrebbero avere necessariamente una struttura unitaria e a dimensione nazionale.
In questa direzione il Ponte sullo Stretto, grande infrastruttura sovranazionale e segmento strategico del Corridoio 1 dell’Unione Europea, rappresenta una grande opportunità per l’integrazione nazionale in chiave euro-unitaria.
A favore dell’autonomia differenziata milita il principio della responsabilità politico-istituzionale, che metterebbe al bando gli amministratori spreconi e divoratori di risorse al Sud per biechi motivi clientelari, liberando le comunità meridionali dall’atavica cappa della politica politicante.
E’ di tutta evidenza, quindi, che l’autonomia differenziata è un’occasione per migliorare nel Mezzogiorno la qualità della classe politica, imponendo l’etica delle responsabilità, ma la sua attuazione non può essere espressione di una visione unilaterale e indifferenziata, ma frutto di un processo di armonizzazione, che veda lo Stato centrale coinvolgere tutte le Regioni e le parti sociali, sindacati e associazioni datoriali, queste ultime oltre il tradizionale ormai anti-storico recinto delle organizzazioni monopolistiche, in una grande operazione di concertazione istituzionale e sociale, che contemperi la visione unitaria del nostro Stato con la sua vocazione regionalista, entrambe presenti nella nostra Carta costituzionale.
Ecco, perché, non servono divisioni aprioristiche e spesso strumentali, ma un confronto democratico senza steccati politici.
La Confial è impegnata in questa prospettiva di governo fondato sul dialogo e l’attuazione democratica di un importante processo di riforma costituzionale.