Benedetto Di Iacovo, segretario generale della Confial, sindacato presente su tutto il territorio nazionale, ha chiesto al governo di essere convocato assieme alle altre organizzazioni, anche con tavoli separati, per discutere la grave vertenza ILVA. Secondo il leader sindacale: “Parafrasando il romanzo di Carlo Emilio Gadda, la vicenda dell’ex Ilva di Taranto si può definire come ‘Quer pasticciaccio brutto de ArcelorMittal’, che riscontra plasticamente tutta l’inadeguatezza della classe politica italiana, di governo ma anche di opposizione a sua volta incapace di esprimere proposte e non solo contestazioni. Bisogna essere chiari sulla vicenda: alla pessima gestione dell’accordo al tempo, da parte dell’ex ministro dello Sviluppo economico, si assomma un comportamento in grave violazione di obbligazioni liberamente assunte da parte dei vertici di ArcelorMittal. Non si può affermare che il problema è la revoca dello scudo penale, sapendo che esso violava norme di carattere costituzionale e affermare nel contempo “In ogni caso, anche se la protezione legale fosse ripristinata, non sarebbe possibile eseguire il contratto in quanto c’è la possibilità che, per un provvedimento dell’autorità giudiziaria di Taranto, venga di nuovo spento l’altoforno 2 e in tal caso dovrebbero essere spenti anche gli altiforni 1 e 4 in quanto, per motivi precauzionali, sarebbero loro egualmente applicabili le prescrizioni del tribunale sull’automazione degli altiforni”. In realtà, dietro l’atto di citazione di ArcelorMittal all’Ilva in amministrazione straordinaria, depositato al tribunale di Milano, c’è la volontà di fuggire dall’intrapresa economica, in considerazione del calo del prezzo dell’acciaio a livello internazionale, che testimonia ancora una volta, in generale, la natura meramente speculativa e non imprenditoriale del capitalismo globalizzato. Confial è al fianco dei lavoratori e della realtà tarantina. La situazione è molto grave, poiché l’impatto annuo sul Pil nazionale dello stabilimento ex Ilva è stimato, considerando gli effetti diretti, indiretti e indotti, in 3,5 miliardi di euro, di cui 2,6 miliardi concentrati al Sud (in Puglia) e i restanti 0,9 miliardi nel Centro-Nord, pari allo 0,2% del PIL italiano. Se consideriamo l’impatto sul Pil del Mezzogiorno si sale allo 0,7%. L’occupazione impegnata poi, da Ilva è di quasi 10 mila addetti (di cui oltre l’80% a Taranto), di circa 3 mila dipendenti nell’indotto e di altri 3 mila addetti legati all’economia attivata dall’azienda: un bacino complessivo di oltre 15 mila persone che rischierebbe di perdere il lavoro e la retribuzione. La soluzione deve essere quindi, immediata, a parte le azioni legali risarcitorie nei confronti di ArceloMittal per recesso senza causa del contratto a cui si immagina penseranno correttamente i commissari ex Ilva, si affidi lo stabilimento tarantino, come affermato dall’ex premier Matteo Renzi, al secondo classificato della gara, svoltasi con regole di normativa speciale. Più in generale il governo e il parlamento devono, come avveniva nella vituperata I Repubblica, definire una vera politica industriale, fondata sull’interesse nazionale, anche per evitare la deriva colonialista che sta subendo l’industria italiana, sistematicamente cannibalizzata da quella straniera, francese in primo luogo, come testimonia da ultima la vicenda PSA-FCA.
Il nostro Paese, entrato a pieno titolo, subito dopo gli anni ‘50, tra i Paesi più industrializzati del mondo, da oltre un trentennio non promuove più Politiche Industriali, capaci di essere elemento di orientamento per il sistema delle Imprese, ormai, fatto sempre più solo da piccole, piccolissime e medie imprese, atteso che, tranne pochissime eccezioni, quali le grandi imprese che restano nell’alveo delle Ex Partecipazioni Statali (Eni, Finmeccanica, Breda, ecc), atteso che quasi tutti grandi gruppi, in ultimo FIAT, per come accennato, hanno abbandonato il sistema Italia. Proprio in un momento come quello attuale, per le ragioni evidenziate, salvare l’ex ILVA e riprendere la promozione di un serio progetto di politiche industriali, può risultare una mossa vincente. Le economie moderne, si sa, evolvono di continuo, con attività private e pubbliche che nascono e muoiono in tutti i settori, ma alcuni cambiamenti – legati alla struttura dell’economia – sono di grande rilievo e di difficile realizzazione. Esempi di queste trasformazioni sono stati, nel tempo: il progressivo passaggio dall’agricoltura allo sviluppo industriale nei Paesi più poveri; il declino dell’industria tradizionale e lo sviluppo di servizi avanzati nei Paesi più ricchi; il passaggio da sistemi produttivi basati sulla meccanica e la chimica a un’economia dominata dalle tecnologie dell’informazione e comunicazione; la necessità di rendere la produzione sostenibile dal punto di vista ambientale. Dopo due secoli in cui le politiche industriali hanno svolto un ruolo essenziale nei processi di industrializzazione delle economie avanzate, nell’ultimo trentennio molti Paesi hanno lasciato ai mercati, in un contesto di crescente apertura internazionale, la guida dei processi di cambiamento economico. Con la crisi iniziata nel 2008, tuttavia, le politiche industriali devono tornare di attualità, con una rivalutazione del ruolo dello Stato nell’economia. Il XX sec., nel nostro Paese, ha visto l’ascesa e il declino delle politiche industriali. La crescita economica senza precedenti registrata dai Paesi europei, dal Giappone e, negli ultimi decenni, dai Paesi dell’Asia orientale è stata sostenuta da attive politiche industriali.
E’ tutto questo che serve all’Italia se non vogliamo passare il nostro tempo ad interventi spot, una volta per salvare la Whirlpool, poi l’Alitalia, oggi l’ex ILVA.